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Un funerale, un matrimonio, molti buchi, un'indagine e due poliziotte

Mi raccontava una mia amica, l'altro giorno, di quella sua ex compagna di scuola che si è sposata a quarant'anni e più. Nulla di nuovo, direte voi. Se non fosse che la storia, breve ma cinematografica, può essere un buono spunto da cui ripartire.

Succede tutto al funerale della madre. La compagna di scuola è affranta ma composta nel proprio dolore; non si sottrae ai doveri di figlia e saluta uno a uno i presenti una volta terminata la triste cerimonia. C'è anche quell’amica tanto cara di mamma che, per l'infelice occasione, si è fatta accompagnare dal figlio. Tanto cara la signora, tanto sincero il figlio nel mostrarle partecipazione. Il quale, nei difficili giorni a venire, dà prova di dedizione alla ragazza tanto da conquistarne il cuore e diventarne ben presto il fidanzato. E per mostrarle infine tutto il suo amore, quel figlio tanto attento la conduce un giorno dinnanzi al proprio portone, e non con un anello nel taschino ma col nome e cognome della di lui futura moglie già ben accasato sul citofono, le chiede di sposarla.

Qualcuna, direte voi, dinnanzi a quel portone se la sarebbe forse data a gambe, ma questa storia di un funerale e un matrimonio, di cui non ci è dato saperne gli sviluppi, rincuora.

Perché, a quarantasette anni, non ho ancora ben capito per quale motivo sia tanto difficile amare e tanto facile soffrire. C’è un’età precisa in cui tutto ci appare finalmente chiaro, senza riflessi? Che debbano ancora giungere anni saggi, maturi, lievitati al punto giusto da sfornare un memoir perfetto nei toni e nei ricordi? Oppure invece non capiremo mai niente fino in fondo, continuando a sbagliare e a dar corpo ai misteri della vita?


D'altronde, fin da ragazzina ero affascinata dalle oscure circumnavigazioni del dolore, dalle nebbie dei sentimenti. Dicevo che l’amore non esiste, che non ne vale la pena, che è una grande illusione inventata per renderci docili nell’attesa. Accovacciata sulla moquette ai piedi del divano, compilavo pagine e pagine di diario tanto zeppe di stronzate da esistenzialista della domenica da meritare uno schiaffone da qualche improbabile lettore.

Intanto però si cresce, si cade e ci si ferisce, si sbaglia, si perdono le persone che abbiamo amato e tutto cambia, niente è più come prima.


Il buco.

«In una piccola casa, in un villaggio di media grandezza, sopra una grande collina viveva Giulia con la sua famiglia. Giulia era una bambina normale, come ogni altra. La sua vita era felice e serena. Ma un giorno, all’improvviso, tutto questo finì e lei si ritrovò con un grande buco nella pancia.»

Così inizia Il buco, libro illustrato da leggere dagli zero ai centovent’anni di Anna Llenas, affermata autrice e illustratrice spagnola che con quest’opera, edita in Italia da Gribaudo e pubblicata in Spagna nel 2013, ha condensato in poche precise semplici parole e in enormi buchi disegnati nella pancia quel malessere, quei mostri, quell'infelicità che ci fa soffrire e, spesso, sbagliare.



«La vita è piena di incontri. E anche di perdite. Alcune insignificanti», ci ricorda Anna Llenas dalla quarta di copertina, «come quando si perde una matita o un foglietto. Ma alcune sono importanti, come la perdita di qualcosa a cui si tiene, della salute o di qualcuno che si ama. Questa storia ci parla della nostra capacità di resistere e di superare le avversità, di trovare il senso della vita».





Buchi più o meno riconoscibili, ovunque.


«Poco prima che mia madre morisse il piastrellista che stava dando una sistemata alla cucina staccò dalla parete una mattonella provvista di un improbabile buco rotondo. Sedette sui talloni e la sollevò sopra la testa: il sole che filtrava dalle vecchie tende ingiallite pareva trapassare il buco come un laser. Il tizio fece l’occhiolino a me e mia sorella, poi si girò verso nostra madre, ormai ingrigita, che se ne stava china sulle Meditazioni di Marco Aurelio e su una scodella di chili in grado di sbloccare vie respiratorie alte e basse, e commentò ironico: “Be’, signora Karr, si direbbe proprio un foro di proiettile”.

Lecia, cui non sfuggiva mai nulla, se ne uscì: “Ma non è dove hai sparato a papà?”…

Mia madre alzò lo sguardo, si fece scivolare gli occhiali lungo il naso patrizio e, con somma noncuranza, rispose: “No, lì è dove ho sparato a Larry”. Si voltò e, indicando un’altra parete, aggiunse: “A vostro padre ho sparato laggiù”.

«Ciò dovrebbe bastare a farvi capire», continua nell’introduzione l’autrice, Mary Karr,

«come mai ho preferito scrivere Il club dei bugiardi sotto forma di libro di memorie anziché di finzione: perché perdere tempo a inventarsi qualcosa quando il destino ti circonda di personaggi simili?».

Quella di Mary Karr è stata una vita popolata da incredibili buchi personali e familiari. Già a cinque anni, negli anni '50 a Leechfield, cittadina petrolifera del Texas, Mary, con la sorella poco più grande Lecia, fa i conti con una madre e un padre dediti all'alcol e con il continuo bisogno di soldi per ripagare i debiti. Potrebbe bastare così se non fosse che, a segnare la vita di Mary Karr, ci sono l'incendio appiccato dalla casa dalla madre Charlie Marie, con i suoi sette matrimoni e i tre esaurimenti nervosi; la dipendenza dalle droghe e dall'alcol una volta lasciata Leechfield, nel 1972, direzione Los Angeles; la depressione, il tentato suicidio e via andare.

Poi però a un certo punto Mary Karr fa una scelta. Sceglie la letteratura. Comincia a studiare, a frequentare corsi di grandi maestri, tra cui Raymond Carver; a scrivere poesia. Sposa un poeta, Michael Molburn, con cui fa un figlio e da cui divorzierà dieci anni dopo, nel 1993. Incontra David Foster Wallace, ha una relazione con lui, di cui però i giornalisti durante le interviste le faranno fin troppe domande: «Come se il mio contributo alla letteratura», dirà poi Mary Karr, «fosse che me lo sono scopato un paio di volte nei primi anni '90».

Insomma, a leggere il suo memoir viene da pensare che la vita, a Mary Karr, abbia prima tolto e poi dato, con la giusta fama conquistata grazie alla scrittura, in una lotta alla sopravvivenza che insegna a resistere.


«Adoravo la mia famiglia. Mi piacevano, davvero. Ma erano pericolosi, per loro stessi e per me. Per sopravvivere avrei avuto bisogno di compassione, cosa che richiede una certa confidenza con la complessità psicologica e le sfumature, qualcosa che potevo trovare solo nei libri. E così cercavo un conforto perverso - forse anche colpevole - nelle storie di quelli a cui era andata peggio di me. Sorda e cieca. Helen Keller era confinata nel suo corpo muto più di quanto io avrei mai potuto immaginare. Come potevo lamentarmi? E quando Maya Angelou raccontò del suo stupro, sentii il vuoto attorno a me cominciare a riempirsi della sua presenza».

Già, perché nel libro la Karr racconta anche dello stupro subito da parte di un adolescente vicino di casa e poi, ancora, delle molestie subite dal suo baby-sitter. «Non ho molto successo come ragazzina», ricorderà di aver scritto in uno dei suoi diari; «Quando sarò grande, probabilmente sarò un casino».

Il che mi porta dritta dritta a Unbelievable, la miniserie di Netflix con tre nomination ai Golden Globes 2020, ispirata all'articolo scritto nel 2015 dai giornalisti T. Christian Miller di ProPublica e Ken Armonstrong di The Marshall Project, poi premiati col Pulitzer nel 2016.

È la storia vera di Marie Adler, adolescente dalla vita travagliata, abbandonata da piccola, che viene violentata ma alla quale nessuno crede a partire dalle madri affidatarie, e che troverà giustizia soltanto dopo alcuni anni, grazie al lavoro di due poliziotte che indagano su un serial killer, interpretate sul set dalle più che convincenti Merritt Wever (Into the Wild, Birdman, Storia di un matrimonio; Law&Order, The Good Wife, The Walking Dead) e Toni Collette (Spotwoods, Le nozze di Muriel, Emma, Il sesto senso, About a boy, The Hours, Little Miss Sunshine).

Ne scrive bene Silvia Schirinzi in questo articolo per Rivista Studio.


M'è rimasto in testa questo dialogo tra le due detective, in un momento di impasse nelle indagini, nel quinto degli otto episodi complessivi.

«Scenario ipotetico. Uno studio dice che il 40 per cento delle agenti picchia i figli. Cosa accadrebbe?», chiede Toni Colette a Merritt Wever.
«Quel 40 per cento perderebbe il lavoro», risponde Merritt.
«E sarebbe giusto. Sarebbe appropriato. C’è uno studio dalla Florida, dove è pieno di sbirri che picchiano le mogli. Sai quanto lavorano ancora? Il 30 per cento. Lo sanno tutti, c’è una forte correlazione tra violenze domestiche e violenze contro estranei, eppure un terzo degli sbirri violenti in Florida ha ancora arma e distintivo», continua Toni.
«Capisco, ma non credo sia tutta colpa di Taggart», ribatte l’altra, riferendosi al collega agente FBI che le sta aiutando a risolvere il caso.
«Be’, non è mai colpa di nessuno. È proprio questo il problema. Nessuno osserva i dati sulla violenza contro le donne».

La serie, guarda un po', è stata ideata e scritta da una donna, Susannah Grant, sceneggiatrice, tra gli altri, di Erin Brockovich.


Chiudo da dove avevo iniziato, con un altro funerale. Perché, come scrive Mary Karr,

«è un dato di fatto che i morti di fresco si prendono un bel po’ di spazio nella nostra testa.»

Di cerimonie funebri memorabili ne abbiamo viste tante al cinema e in tv; l’ultima che ho visto io e che mi ha fatto piangere per la verità dei sentimenti e delle atmosfere che descrive, apre la prima stagione della serie tv Il metodo Kominsky.

Ne avrete sentito senz’altro parlare. Michael Douglas & C. meritano un posto sul vostro divano se pensate sempre più spesso alla morte, se avete più di trent’anni, se soffrite di problemi alla prostrata, se credete nel salvifico potere dell’ironia, se sapete che cos’è la vera amicizia o se la state ancora cercando (vedi Grace and Frankie) e se quei dialoghi che avreste voluto scrivere voi riescono a colmare, anche solo per una sera, qualche buco nella pancia.

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