eleonora marchiafava
Del pericolo del raccontare
Fatico a sostenere un colloquio di lavoro. Mi siedo di fronte al selezionatore del personale e, anziché tentare di fare buona impressione, m'interrogo. «Perché mai dovrebbe credere che sono la persona che dico di essere?». Le persone dicono in continuazione di essere ciò che non sono, di fare ciò che non fanno. I personaggi dei libri e dei film che ci piacciono sono misteriosi, fingono, spariscono, ritornano, cambiano nome, si travestono.
Guardo il selezionatore del personale e penso alle domande che potrebbe farsi a sua volta mentre m'interroga, mentre indaga il candidato, il vestito che indossa, le parole che sceglie per descriversi. Lo sguardo che tiene basso sarà dovuto alla timidezza, alla tensione o alle bugie? E quel gesto che fa di toccarsi il mento in continuazione? Dubita persino, il selezionatore del personale, della propria capacità di giudizio. E se avesse avuto, che so, un padre lontano da casa per molti mesi all’anno, in trasferta per lavoro in paesi esotici, isolati, irraggiungibili per mare e per terra? Se avesse passato l'adolescenza a chiedersi che cosa starà facendo papà, con chi parla e con chi cena, con chi va a letto? E se poi, crescendo, quel selezionatore avesse cominciato ad amare i libri e la letteratura e le storie che raccontano? Si sarà chiesto a un certo punto, è naturale, se suo padre fa la spia, se è un agente dei servizi segreti, se ha una doppia vita. E se infine quel selezionatore del personale avesse conosciuto Berta Isla, dopo tanti anni, oggi, tornerebbe a farsi quella domanda? - “chi era davvero papà?” - pur consapevole di ritrovare soltanto il mistero lasciato dal padre morendo?
Javier Marías mi ha riportato a quelle domande, più o meno autobiografiche, con Berta Isla, premiato come miglior libro del 2018 da “La Lettura”. «Quanto sappiamo dei nostri genitori?», ha chiesto lo scrittore madrileno alla consegna del premio, l’11 febbraio scorso a Milano. «Sappiamo ancora meno di nostra moglie o di nostro marito. Berta Isla è incapace di conoscere parte della vita del marito. Succede a tutti noi».

E una mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi, a colazione, leggiamo sul giornale una notizia di cronaca che sembra un giallo, quella signora, “la donna fantasma” che nessuno in paese aveva più visto dai tempi delle scuole elementari. «No, mia figlia non ha piacere di vedere nessuno e dunque nemmeno lei dottore, mi dispiace», pare aver detto la madre al medico di famiglia, che al “Resto del Carlino” ha commentato incredulo la notizia della morte della donna avvolta nel mistero.
Del pericolo del raccontare, del rischio delle parole narra Javier Marías.
«Le parole sono tra le cose più democratiche, tutti le possiedono», ma sono «cariche di riverberi», avverte lo scrittore svelandoci Berta Isla. «In quel mondo risalta il destino di tutti quanti: non conosciamo niente, nemmeno di noi stessi».
Ciò che non viene detto, che non viene raccontato, «non esiste e dunque non fa neppure male. È un cardine, credo, della sua visione del mondo e della letteratura», scriveva Claudio Magris all’uscita del libro, l’anno scorso a maggio. «Raccontare - non solo sulla pagina romanzesca, anche a voce, parlando - dà vita a ciò di cui si narra, è la sua generazione e il suo atto di nascita. Non sempre, naturalmente, la vita è un bene o fa bene e Marías possiede tutta la forza, l’asprezza, la durezza per metterci davanti agli occhi ed al cuore anche la crudeltà dell’esistenza».

«Di quello che non ci raccontano non sappiamo nulla, di quello che ci raccontano nemmeno, nemmeno di quello», pensa Berta Isla. «Noi abbiamo la tendenza a credere, a pensare che la gente dica la verità, senza far troppo caso e senza diffidare; la vita non sarebbe vivibile se non facessimo così, se mettessimo in dubbio le affermazioni più insignificanti, perché mai qualcuno dovrebbe mentirci riguardo al suo nome, al suo lavoro, alle sue origini, ai suoi gusti e alle sue abitudini, a quella massa di informazioni che tutti ci scambiamo disinteressatamente, spesso senza che nessuno ci chieda nulla, senza che nessuno mostri il minimo interesse nel sapere chi siamo, che cosa facciamo, come ci va la vita, quasi tutti raccontiamo più di quanto dovremmo o, peggio, imponiamo agli altri informazioni e storie che a loro non interessano affatto e diamo per scontata una curiosità che non esiste, perché mai qualcuno dovrebbe essere curioso di sapere qualcosa di me, di te, di lui, pochi sentirebbero la nostra mancanza se sparissimo da un giorno all’altro e pochissimi si porrebbero il problema. “Già, non so che cosa ne è stato di quella signora”, direbbero».